
Sarzana, La Spezia
Beatrice Meoni è artista, pittrice, e Massimo Biava gallerista. Vivono in una casa indipendente nel centro storico di Sarzana. Ci siamo incontrati per parlare della loro casa, delle memorie passate che li accompagnano e del loro presente, domestico e lavorativo.
La vostra casa si trova nel centro storico di Sarzana in una situazione singolare: l’abitazione, che si sviluppa in altezza, è collegata sia allo studio di Beatrice, con cui condivide una piccola corte, sia all’appartamento del piano nobile della famiglia di Massimo, attraverso un ponte-passaggio. Ci raccontate della vostra casa? Cos’è per voi lo spazio domestico?
Beatrice Questa casa è un po’ un labirinto. La prima volta che sono arrivata qui mi sono quasi smarrita. Varcato il portone d’ingresso si può scendere in basso o salire in alto e più in alto ancora, o proseguire per uscire a sinistra o a destra della casa e andare in altri luoghi.
L’appartamento di Francesca, la mamma di Massimo, si raggiunge attraversando il piccolo ponte sopra la strada. Per andare nel mio studio, dalla parte opposta, si passa prima da un terrazzino e poi da una scala. Questi due collegamenti esterni sono come due braccia che uniscono l’appartamento del piano nobile* al mio studio.
In mezzo c’è la nostra casa che con il tempo ho capito essere un centro, un punto di attrazione e di unione tra mondi, tempi ed epoche diverse. E quindi di grande mescolanza. Oltre alle cose che io e Massimo abbiamo raccolto negli anni abbiamo mantenuto tanti mobili, opere d’arte e oggetti di famiglia che abitavano già questi spazi prima del nostro arrivo.
I nostri ambienti sono piccoli, non hanno grande estensione e la loro caratteristica più evidente è la verticalità. I collegamenti verticali con le varie scale da percorrere influenzano fortemente il nostro vivere quotidiano e mi portano spesso a riflettere sul tempo che è un tempo diverso, più lungo, dilatato, rispetto a quello che si potrebbe avere in uno spazio lineare. Noi siamo verticali, non orizzontali.
*L’appartamento al piano nobile abitato dalla madre di Massimo Biava, Francesca Fontana, era la residenza dello scultore Carlo Fontana, prozio di Massimo.


Massimo Le stanze piccole paradossalmente la fanno diventare grandissima, perché ogni ambiente ha la sua funzione. Ad esempio la cucina è cucina! Luogo per cucinare e mangiare, ma non per svolgere altre attività. Collegato alla cucina c’è il salotto con il divano e tutto il mondo legato a questa stanza: la televisione, i libri, le riviste. Poi ci sono i passaggi esterni e le scale interne che a loro volta ti portano in altri spazi con la loro vocazione specifica.
Tante stanze, tanti mondi diversi. E possiamo vivere gli spazi senza sovrapporci.

Fotografie di Massimo Biava


La vocazione alla diversificazione di ogni ambiente. La vostra corte esterna in occasione di alcuni eventi è diventata uno spazio pubblico.
B. Il cortile è il polmone verde della casa e il suo fulcro. Per questo è sempre stato un luogo di aggregazione e di accoglienza, non solo familiare.
La possibilità di aprirci verso l’esterno, alla strada, è stata più volte sperimentata per eventi espositivi legati alla galleria (galleria Cardelli & Fontana, Sarzana), facendo in più occasioni piccoli rinfreschi o veri e propri pranzi, allestiti a volte anche dentro allo studio.
Dopo l’inaugurazione delle mostre in galleria di Fabrizio Prevedello e di Gian Carozzi abbiamo preparato due cene apparecchiando un grosso tavolo nel mio studio, e ricordo ancora il grande impegno per spostare, o nascondere, tutte le mie cose.
Grazie al cortile abbiamo organizzato anche eventi autonomi, ad esempio dei cicli di proiezioni, proprio come un piccolo cinema all’aperto! Memorabile è stato la programmazione di tutti i film di Jacques Tati.
Aprirci agli altri, alla condivisione, è una cosa che abbiamo sempre amato e l’apertura della corte direttamente sulla strada asseconda questo sentimento congeniale ad entrambi.


Beatrice, cosa significa per te avere lo studio in continuità con la tua casa? E come l’adiacenza di questi spazi ha nutrito la tua visione artistica?
L’ambiente dello studio, che prima di me ha ospitato altre attività, è nato come spazio esterno alla vita domestica.
Nel momento in cui è diventato il mio studio la sua continuità con la casa è stata un grande vantaggio, soprattutto quando è nato nostro figlio Carlo e avere uno spazio di lavoro esterno era diventato complesso.
Con il tempo questo ponte ha costruito le basi di tutto il mio lavoro pittorico iniziale. Lo studio sulle nature morte, sugli oggetti rotti e sulla frammentarietà dello sguardo è nato dal mio agire quotidiano. Ho iniziato a portare degli oggetti dalla casa allo studio; oggetti che ho cominciato a impilare e che hanno costruito le mie prime composizioni. Oggetti domestici e comuni, non legati ad una visione estetica ma che seguivano una dimensione di vissuto, che una volta portati in studio cambiavano di segno.
La tazza, il piatto, la brocca qui acquistano un altro valore. Attraverso lo studio, la contemplazione, lo spostamento di spazio e il conseguente svuotamento della funzione diventano qualcosa di altro.
A volte penso di mescolare troppo vita privata e lavoro e che dovrei essere più distante. Poi mi rendo conto che è parte, e nutrimento, della mia pratica artistica.



“La mia casa e la quotidianità influenzano fortemente il mio lavoro e il mio modo di essere artista” Beatrice Meoni



Prima di dedicarti alla pittura la tua formazione umanistica ti ha portato a fare esperienze in ambiti diversi. Quali letture hanno influenzato la tua visione artistica della domesticità?
Le letture sono un’altra parte importante per lo sviluppo del mio lavoro.
Partendo da Virginia Woolf che è stata uno dei miei capisaldi, penso adesso a Tolstoj dove ci sono piccole descrizioni in cui intravedo spiragli, ispirazioni da cui attingere.
Poi tutte le letture legate al femminismo che sono per me punto di riferimento costante, in cui il domestico è la base da cui partire per analisi o riflessioni sulla condizione femminile.



Massimo, il tuo trisnonno era il pittore Giorgio Lucchesi, il tuo prozio lo scultore Carlo Fontana e tua madre è Francesca, che è stata gallerista di arte moderna e contemporanea e di cui porti avanti il lavoro. Crescendo in questo ambiente famigliare così stimolante come si è indirizzato e sviluppato il tuo gusto?
Anch’io come Beatrice parto da una riflessione sugli oggetti che abitano la nostra casa, molti dei quali appartengono alla mia famiglia da generazioni.
Così anche gli oggetti più semplici di uso quotidiano hanno il loro specifico racconto da tramandare. Può capitare di usare un piatto e ricordare che il trisnonno, il pittore Giorgio Lucchesi, lo aveva comprato perché raffigurato in un quadro dell’Ottocento, oppure ripensare che l’acquisto del tavolo è legato ad una vicenda curiosa e così via.
Lo stesso discorso vale per le cose meno comuni come quelle provenienti dalle navi e collezionate dal nonno comandante di Marina, o tutti i materiali legati alla produzione scultorea del prozio Carlo Fontana, tra cui documenti e archivi fotografici.
Gli oggetti non sono mai una cosa sola e quelli nella nostra casa custodiscono le stratificazioni del tempo e racchiudono le storie della nostra famiglia.
E infatti, a scapito di queste eredità, ci piacerebbe una casa minimale con cose tutte comprate da noi senza il bisogno di recuperarle dalla soffitta o dalla cantina!



Rispetto al mio lavoro l’ambiente familiare e della casa ha contribuito a sviluppare in me, oltre a un forte immaginario visivo, un rispetto e una considerazione particolare nei confronti degli artisti.
In casa mia l’artista era colui che era riuscito nella vita, il personaggio più importante della famiglia a cui riconoscere doti e sensibilità non comuni. Questo è successo prima nel caso del trisnonno pittore e dopo con il prozio scultore.
Questo sentimento di riverenza ancora oggi non mi abbandona perché riconosco agli artisti una marcia in più: l’essere sempre un passo avanti nella visione del mondo e della sua interpretazione.

Dipinti del pittore Giorgio Lucchesi, trisnonno di Massimo Biava, raffiguranti la figlia, il genero e i consuoceri

Fotografia di Massimo Biava
Massimo, la galleria che co-dirigi segue diversi filoni artistici. Qual è l’arte che prediligi?
Oggi non c’è un’arte che prediligo, ci sono artisti che mi piacciono. Anche perché gli stessi artisti usano medium diversi per esprimersi.
Oltre alla pittura nelle sue varie forme, apprezzo il Minimal, la video-arte e anche la fotografia, verso la quale inizialmente nutrivo un po’ di diffidenza. Poi, informandomi e approfondendo, ho scoperto un mondo fantastico capace di appassionarmi.
Ma le emozioni più grandi sono sempre quelle che mi regala l’arte antica. Altrettanto la pittura di fine Ottocento perché richiama alla mia mente memorie familiari e mi smuove l’intimo; è una cosa di affetti. L’arte antica invece è emozione pura.


Tu Massimo sei nato e cresciuto a Sarzana, mentre tu Beatrice a Firenze. Quali sono i ricordi delle case della vostra infanzia?
M. Sì ho sempre vissuto a Sarzana, ma quando ero bambino abitavo in una casa completamente diversa, in un appartamento moderno.
Qui dai nonni, nel centro storico, ci venivo nei fine settimana. La casa nobiliare, quasi una casa museo, e la nostra attuale casa con le tantissime cose conservate, suscitavano in me grandissima curiosità e hanno sempre stimolato la mia fantasia.
B. Anche per me la casa dei nonni è stata importante per la mia educazione emotiva e sensoriale. Io sono nata a Firenze, ma cresciuta a Colle Val D’Elsa dove mio nonno aveva un’attività di vendita e lavorazione del marmo. La sua casa era per questo piuttosto complessa perché ospitava anche l’ufficio e parte del laboratorio. In qualche modo era una casa labirintica proprio come quella in cui viviamo oggi a Sarzana.
La casa in cui vivevo con i miei genitori invece era un appartamento molto semplice e mia madre non era molto interessata agli aspetti estetici o artistici legati all’abitare.
Per questo fondamentale è stata la frequentazione della casa dei nonni. Una casa dove arrivavano sempre molte persone, sia per via del lavoro sia perché punto di riferimento famigliare. E la vicinanza e l’esperienza della campagna, con i suoi tipici paesaggi toscani, ha profondamente influenzato il mio immaginario visivo.

Che influenze ha avuto l’avvento del digitale sul vostro lavoro? Secondo la vostra esperienza il digitale può aiutare a sviluppare attività di alta qualità culturale anche in città di provincia?
Il digitale è utile ma allo stesso tempo obbligatorio per la nostra attività di galleristi. Ho dovuto imparare a fotografare le opere, a usare il linguaggio del web e dei social.
Sicuramente mi aiuta ad approfondire meglio il lavoro degli artisti e proporre ai collezionisti, o alle persone interessate, dei piccoli saggi sulle singole opere d’arte.
Rispetto al passato però tutto è diventato più complesso; ci sono più gallerie, più artisti, più lavoro. Il lavoro in particolare si è moltiplicato. Passiamo molto più tempo al computer e buona parte di questo è dedicato alle attività di comunicazione. Dall’inizio della pandemia tutto questo ha avuto un’ulteriore accelerazione.
Concretamente è aumentato il numero di persone con cui siamo in contatto e che adesso conoscono la galleria, ma non c’è stato un effettivo cambiamento nelle vendite che funzionano con i collezionisti e con le persone che già ci conoscevano.
Sicuramente esiste un divario tra il mondo digitale e la realtà. Una saturazione di contenuti online che non ha una corrispondenza, ad esempio, nella nostra realtà territoriale.



B. Io ho un rapporto ambivalente e abbastanza conflittuale con il digitale.
Se da una parte è fondamentale perché mi unisce a persone e artisti che vivono in altri luoghi, in Italia e nel mondo, dall’altra l’eccessivo uso di questo mezzo e la conseguente mancanza di relazione fisica con l’opera, fa sì che venga a mancare un momento di approfondimento personale e di confronto.
Durante il lockdown del 2020 c’è stato un sovraccarico di interazioni, di video, di interviste in serie, e la sensazione era che con la mancanza di presenza tutto andasse verso l’esterno e niente tornasse indietro, verso un arricchimento personale.
Per quanto si possa indagare un’opera attraverso il digitale, non è sostituibile con la relazione fisica, con lo starle davanti, guardarla, lasciandosi il tempo di interrogarsi e di emozionarsi.

Beatrice e Massimo, grazie per i pomeriggi trascorsi insieme nella vostra bellissima casa e per tutto il tempo che mi avete dedicato.
Di seguito i link per avere maggiori informazioni sulla galleria Cardelli & Fontana e sul lavoro di Beatrice Meoni.
Fotografie: Mario Commone e Marta Manini