
Delio Gennai, in equilibrio tra ricerca artistica e promozione culturale
Pisa
Delio Gennai è artista e gallerista, nel 1987 ha fondato la sua associazione culturale e galleria “Studio Gennai” per la promozione delle arti visive contemporanee, con un percorso del tutto personale che si è sviluppato nel tempo, alla ricerca di itinerari, connessioni, collaborazioni, di una identità creativa e culturale.
Delio vive a ridosso del centro storico di Pisa, vicino al lungarno, in un piccolo palazzo su due piani dei primi del ‘900.
Delio, la passione verso l’arte ti accompagna da sempre. Qual è la tua formazione?
Devo fare una premessa che riguarda la mia infanzia. Fin da piccolo sono stato affascinato da tutto quello che era arte e con arte intendo ciò che riguarda la manualità dell’uomo declinata nel disegno, nella scultura, ma anche in attività più prettamente artigianali come il ricamo e il cucito.
Nel paesino dove sono cresciuto ho iniziato a conoscere l’arte attraverso le riviste e i giornali che arrivavano a casa. I miei genitori erano persone semplici, ma amavano leggere e tenersi informati su quello che succedeva nel mondo.
Dopo aver interrotto gli studi di ragioneria ho svolto diversi lavori fino a quando la visita ad uno studio d’artista mi ha fatto capire che solo quella poteva essere la mia strada. Il mio percorso non è stato lineare, ma non ho mai smesso di seguire il sogno di capire, conoscere, fare arte. Così a 19 anni, durante il militare, ho ricominciato a studiare frequentando un istituto d’arte a Brescia, che ho poi terminato nella scuola d’arte di Pisa con una specializzazione nel Vetro.
Quando più tardi ho trovato lavoro come tecnico alla Facoltà di Botanica dell’Università di Pisa si è acceso nuovamente il desiderio di approfondire gli studi.
Così mentre lavoravo contemporaneamente studiavo e sono riuscito a laurearmi in Storia dell’arte. È stata una lotta, ma alla fine sono riuscito a soddisfare questa mia grande passione.


Come si è sviluppato e indirizzato il tuo modo di fare arte, il tuo gusto?
Frequentando la scuola d’arte ho iniziato con la pittura, tempera su tela; le geometrie e il loro equilibrio mi hanno attratto fin da subito ed è iniziata la sperimentazione. Progressivamente ho modificato l’uso dei colori che da pieni sono diventati man mano più tenui, poi sempre più desaturati.
In seguito è stata fondamentale la scoperta degli stendardi di origine moresca della chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa: una folgorazione, ha ribaltato il mio modo di fare arte.
Ho iniziato a studiare quei segni e quei decori e a realizzare delle composizioni su tela. Da quel momento ho trovato la mia direzione, fatta di simboli, scritture e geometrie, ho eliminato le cornici per lasciare libere le tele.
Il mio lavoro si è quindi sviluppato fino all’essenza del segno e ho definitivamente abbandonato il colore per il solo bianco. Ho iniziato ad usare altre tecniche e materiali, come il taglio e la sovrapposizione di carte e garze, l’incollaggio di materiali diversi e le incisioni per mettere in risalto i segni, le trasparenze, i pieni e i vuoti.

Quali sono i ricordi della casa della tua infanzia?
Io sono cresciuto a Legoli, un paesino nelle colline pisane. I ricordi riguardano più la vita di paese e la casa di una nostra vicina. Spesso la mia mamma, che doveva andare a lavorare nei campi, mi lasciava dalla signora Rigoletta che viveva in una villetta molto bella. Lei era una ricamatrice e nella sua casa aveva una sorta di laboratorio per il ricamo, dove lavoravano anche sette, otto donne contemporaneamente. Io, unico bimbo, ero molto coccolato e mi affascinava ogni cosa di quell’ambiente e di quel lavoro tutto al femminile.


D’estate il lavoro si spostava nel grande giardino, che ricordo bellissimo, con le sedie all’ombra del grande susino. Io stavo lì con loro sotto l’albero o a giocare nel prato dove facevo le mie scoperte sulla natura, sugli uccelli, sugli insetti.
Credo che nella mia ricerca artistica l’eliminazione progressiva del colore e il mio arrivare al bianco sia stato come un far riemergere queste memorie dell’infanzia, di tessuti e ricami candidi, di rattoppi grandi e piccoli, che già allora sembravano ai miei occhi segni, scritture, composizioni.


Com’è nata l’idea di aprire l’associazione culturale “Studio Gennai” nel 1987?
Nel 1985 ho partecipato ad una collettiva all’allora galleria Unimedia di Caterina Gualco a Genova, dove ho conosciuto persone importanti per la mia formazione personale di artista e poi di gallerista, tra i tanti gli artisti Piergiorgio Colombara e Andrea Crosa e il critico Sandro Ricaldone.
Proprio dagli amici di Genova in visita al mio studio di Pisa c’è stata la spinta a farne anche uno spazio espositivo. Avevo in una prima fase stabilito il mio spazio di lavoro in quello che era stato il negozio di abbigliamento femminile artigianale di mia moglie Lina. Uno spazio stretto e lungo con una libreria al centro a creare due stanze distinte. Tutti, appena lo hanno visto, mi hanno detto: “… ma qui si possono anche fare delle mostre!”
È nato tutto così, semplicemente.
E con la spontaneità con cui spesso accadevano le cose in passato ho iniziato a fare delle mostre. La prima mostra è stata di artisti pisani, poi Sandro Ricaldone è diventato una sorta di consigliere e con lui abbiamo chiamato a esporre artisti provenienti da varie parti d’Italia e anche dall’estero. E molti nomi non li conoscevo! È stato un periodo di crescita e arricchimento personale e professionale.


E le relazioni e lo scambio con altre realtà associative?
Quando ho realizzato una mostra dell’artista giapponese Takako Saito ho conosciuto più direttamente Mauro Manfredi e Fernando Andolcetti della Galleria Il Gabbiano della Spezia.
Io avevo già sviluppato una predilezione per un certo tipo di arte e con loro, che trattavano già da diverso tempo in prevalenza arte concettuale, poesia visiva e Fluxus, è stato amore a prima vista.
Il giorno stesso in cui ci siamo conosciuti abbiamo deciso di fare una mostra insieme. Da loro ho imparato tantissimo, sono stati come dei maestri in quella che ritengo l’arte di organizzare mostre e diffondere cultura. E anche per me, con il tempo, è cresciuto sempre più il desiderio di promuovere l’arte e trovare occasioni farla conoscere.
La nostra collaborazione e il nostro scambio è proseguito in maniera costante fino al 2018 anno in cui Il Gabbiano, dopo 50 anni di gloriosa attività, ha chiuso. Ma l’amicizia continua ancora.



Com’è cambiato negli anni il clima culturale che gravita intorno alla tua associazione e alla città di Pisa?
In questi trentacinque anni tutto è cambiato. All’inizio le cose erano molto spontanee e quando ho iniziato a organizzare mostre ho riscontrato molta curiosità da parte delle persone che venivano numerose.
Anche quando, nel 2008, ho cambiato la sede dell’associazione e mi sono trasferito nel grande spazio a due piani che ancora oggi mi ospita, le persone erano sempre tante.
Poi piano piano l’interesse è andato diminuendo.
Per me la selezione dell’arte da mostrare era importantissima e ho sempre cercato di andare verso la sperimentazione anche nella scelta delle mostre. Non sempre esponevo artisti locali e mi indirizzavo verso artisti che proponevano un’arte non comune, non d’immediata comprensione.
Penso che questo in qualche modo abbia avuto un’influenza sulla frequentazione della galleria nel tempo.
La città di Pisa ha molte eccellenze, ma poche realtà che si occupano di arte e della sua promozione. Anche questo ha il suo peso.


La vostra casa è molto particolare, su tre livelli, uno diverso dall’altro e con una forte personalità. Come avete sviluppato il progetto?
La nostra casa è un piccolo palazzo primi ‘900 su due piani con una piccola corte interna. Siamo riusciti a comprarlo alla fine degli anni ’80 perché quasi completamente da ristrutturare.
Io e mia moglie Lina ci siamo occupati della ristrutturazione. Abbiamo creato due piani molto diversi tra loro. Il piano terra molto fatiscente è stato totalmente modificato, eliminando i corridoi e creando delle grandi aperture nelle pareti per connettere le stanze tra loro.



Al piano di sopra abbiamo conservato i pavimenti, gli infissi e la divisione originale delle stanze che sono diventate tutte camere da letto, eccetto una che ho riservato al mio studio in casa.
Anni dopo abbiamo deciso di recuperare anche il sottotetto. Con una amica architetto abbiamo realizzato una scala moderna e un ambiente dal sapore più urbano, con il pavimento in cemento e i soffitti con le travi a vista dipinte di bianco.


La vostra casa è insieme una casa di un artista, di un collezionista, di un gallerista. Come l’arte ha influenzato la sua definizione?
Il mio lavoro d’artista ha sicuramente influenzato la definizione della casa a partire dalla ristrutturazione dove ho riportato il mio interesse per le geometrie e gli equilibri tra volumi.
Ho anche realizzato dei decori geometrici alle pareti, diversi per ogni stanza, con i quali volevo dare la sensazione del preesistente, del ritrovato.
Poi ci sono i quadri. Il collezionare è stata una conseguenza spontanea del mio lavoro in galleria, un gusto che ho assaporato piano piano. Molti artisti che hanno esposto da me mi hanno regalato un’opera e anch’io ne ho comprante per passione.
Mi è piaciuto riempire interamente le pareti dello studio, dal pavimento al soffitto, mentre al piano terra preferisco avere meno lavori che vario nel tempo. Quando arriva un nuovo quadro gli do una collocazione provvisoria, poi, dopo un po’ di tempo che abita lo spazio, capisco la sua giusta posizione, influenzata anche dalla sua valenza cromatica.


E gli arredi?
I mobili comprati sono quelli della nostra giovinezza, degli anni ’70. Quando io e Lina ci siamo sposati lavoravo in un negozio di design contemporaneo e abbiamo comprato lì gli arredi essenziali. Oltre alla cucina, il divano e le poltrone Zanotta, per cui Lina nel tempo ha fatto tanti rivestimenti diversi, il tavolo tondo in vetro e metallo, la camera con tutti i mobili coordinati, le lampade di design come la Parentesi o la Gatto.
Gli altri mobili li abbiamo tutti recuperati e restaurati. Mobili trovati per strada o abbandonati in questa vecchia casa, mobili che gli amici avrebbero buttato o che ci hanno regalato. Anche quella una passione comune a me e Lina. E poi qualche mobile semplice disegnato e realizzato da me, come la libreria su misura nel sottotetto. Per me, per noi, è imprescindibile nel lavoro, in tutte le attività, nella vita, il fare manuale.


Cos’è per te l’abitare, cosa rappresenta oggi la tua casa?
Il concetto di casa mi è sempre appartenuto. Al desiderio di una casa ideale, attraverso disegni e pensieri fin da piccolo, fino alla necessità di avere una propria casa, uno spazio per pensare, lavorare, per conservare, collezionare, per vivere, amare.
Attraverso la casa mi sento realizzato. La casa è quindi per me da sempre un luogo fondamentale per il mio privato e per il mio lavoro. Un rifugio in cui mi piace vivere.

Grazie, Delio e Lina, per il pomeriggio trascorso insieme nella vostra casa e per tutte le storie che ci avete raccontato. Un grazie a Dania che ha fissato, con le sue fotografie, la nostra visita e la casa dei suoi genitori.
Per avere maggiori informazioni sulla storia e sulle iniziative future dell’associazione culturale e galleria “Studio Gennai” qui il link al sito internet.
Fotografie di Dania Gennai e Mario Commone (1, 2, 3, 5, 14, 16, 17, 22, 25)