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La pittura di Gian Carozzi

Sarzana, La Spezia

 

Sarzana è la città in cui sono nata e cresciuta e fin da piccola ho avuto il privilegio di conoscere Mariantonietta Carozzi, moglie del pittore Gian Carozzi, tra i più importanti pittori liguri del secondo Novecento.

Nel 2018, a dieci anni dalla scomparsa del marito, Mariantonietta, insieme alla figlia Giulia, ha fondato l’Archivio Carozzi per la tutela del grande patrimonio artistico ereditato e per la divulgazione dell’arte e del lavoro di Gian.

L’Archivio ha sede nella casa di Mariantonietta e Gian Carozzi nel centro storico di Sarzana, nelle stanze che un tempo hanno ospitato lo studio dell’artista. È in queste stanze che Mariantonietta mi ha accolto e nelle quali abbiamo conversato a lungo.

Ho sempre avuto ammirazione per le scelte coraggiose che avete deciso di percorrere nella vita: tuo marito quando ha abbandonato Milano e il movimento spazialista all’apice del successo per seguire il suo modo personale di fare arte; tu quando, giovane donna, non hai avuto timore a legare la tua vita a quella di un uomo di trentacinque anni più grande.

Per entrambi direi scelte che non era possibile non fare.
Gian aveva poco più di trent’anni quando ha abbandonato il movimento spazialista proprio quando il successo gli aveva sorriso. Da quello che mi raccontava, anche se non era stata una cosa facile, era stata una cosa necessaria. Così, come poi tutto il resto della sua vita, è stato un fare per necessità etica e comportamentale, perché se avesse agito diversamente sarebbe venuto meno alla possibilità di vivere secondo il suo sentire e quindi a sé stesso. Ha lavorato sempre con onestà, non rincorrendo la moda e talvolta andando incontro a errori e insuccessi.

Io avevo venticinque anni quando ho conosciuto Gian, trentacinque anni a separarci. Un’enormità. Ma a quell’età non mi sono posta il problema, mi bastava un giorno completo da vivere assieme.
E così, anno dopo anno, non mi sono bastati trent’anni. Trascorsi quasi interamente in questa casa in cui ci troviamo adesso.

Ci racconti di questa tua casa?

La casa è circolare e si apre su una corte interna. Le stanze si susseguono tutte una dentro l’altra, ma è come divisa in due rami. Entrando dalla porta d’ingresso sulla sinistra si accede alla parte riservata agli studi, sulla destra agli spazi della vita familiare.

Io e Gian avevamo dato un nome a ogni stanza, nomi che poi sono rimasti nel tempo. La prima camera a sinistra è “la stanza delle due poltrone”. Qui bevevamo insieme il caffè e fumavamo anche una sigaretta. Quando arrivavano degli amici a farci visita, allora, prendevamo delle sedie e creavamo il nostro salotto temporaneo. Scomodo, ma intimo. Sembrerà assurdo perché la casa è grande, ma non abbiamo mai trovato un posto per un divano!

Questa stanza è rimasta identica, così come quella successiva che chiamiamo “lo studio grande”. Qui il cavalletto e il piano su cui Gian posava i pennelli e i colori sono rimasti nella posizione di sempre. Così i tavoli dove disegnava e acquerellava e la poltrona dove mi sedevo quando lo venivo a trovare mentre lavorava.

Dallo “studio grande” si accede all’”ultimo studio” che è la stanza che ho più modificato nel tempo. La parete dove adesso ho posizionato una libreria era interamente occupata da una grande tavola in legno su cui Gian poteva fissare, a seconda del caso, delle grandi tele o delle carte di diverso tipo su cui dipingere con polveri, olii, smalti, ma sempre in piedi.
Oggi è diventata la stanza studio dell’Archivio. Qui giovani studiosi hanno già iniziato a lavorare al riordino di cartelle e disegni.

Infondo alla parete, nascosta nel muro, una piccola porta “privata” conduce alla zona notte e poi alla grande cucina che è da sempre anche la nostra sala da pranzo e il luogo del ritrovarsi. Ma il vero accesso alla cucina è, a partire dall’ingresso, attraverso quella che chiamiamo “la stanza dei giochi”. Questa era riservata a nostra figlia Giulia e tuttora è dedicata agli ospiti più piccoli della casa.

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E com’è stata la vita in questa casa che era al tempo stesso luogo di lavoro e studio, ma anche di famiglia?

Vita, arte e lavoro erano strettamente intrecciati. E, forse, grazie alla circolarità della casa ancora di più. Il rispetto reciproco degli spazi, pertanto, era estremamente necessario, ma ci è sempre venuto naturale.

Gian era dotato di una grandissima disciplina, scandita da orari precisi che occupavano l’intera giornata. Come amava dire «l’opera d’arte non nasce da secoli di ozio, l’opera d’arte, se nasce, nasce dal lavoro».

La sera terminato il suo lavoro in studio si spostava nell’altra parte della casa, nella cucina, con il grande tavolo che accoglieva tutti e in cui iniziava la parte domestica della giornata.

Adesso che sono qui nella tua casa non posso fare a meno di notare che in ogni stanza ci sono composizioni di cesti di frutta e vasi di fiori. Come riesci a crearle?

Non c’è niente di precostituito, mi viene naturale. Se vado a fare una passeggiata nella campagna qui vicino raccolgo un fiore, poi un altro e man mano che si crea il mazzo mi accorgo che ho bisogno di una foglia verde o di un pennacchio, di una nota rosa o viola. In questo modo la mia composizione si forma quasi da sola, naturalmente adattandomi a quello che mi offre la stagione e la strada che percorro.

Lo stesso accade se raccolgo delle meline nel campo o se acquisto dei mandarini dal fruttivendolo. Li mangio naturalmente, ma prima li compongo in un piattino, in un canestro, in un cestino, perché mi dà un piacere infinito crearmi queste composizioni.

È anche su questo che ci siamo incontrati io e Gian, su questa capacità di comporre le piccole cose della vita quotidiana. Perché vivendo con un pittore acquisisci uno sguardo sulle cose in cui tutto può diventare macchia di colore, soggetto pittorico, pittura. E questo è il regalo più bello che mi possa aver fatto.

A volte Gian veniva in cucina e mi “rubava” il canestro con le patate o il piattino con l’aglio e li portava in studio. E una volta in studio non potevano più essere toccati perché erano diventato altro, erano diventati la natura in posa.

In ogni stanza ci sono tanti tavoli e tante cornici, molte delle quali anche vuote…

In questa casa ci sono molti tavoli costruiti con semplici cavalletti su cui sono appoggiati assi o piani di compensato. In questo modo ogni tavolo era facilmente trasportabile e trasformabile e Gian poteva creare dei punti di lavoro temporanei in tutta la casa, spesso seguendo la luce naturale e le stagioni.

Le cornici invece sono sempre state una sua passione. Gli piacevano molto e le ricercava sempre, sia per i suoi quadri sia per usarle vuote. Prediligeva quelle antiche, non importava che fossero preziose, ma dovevano avere un “sapore”, come diceva lui.

Per tanto tempo ha usato come scelta compositiva per le pareti enormi cornici vuote che incorniciavano altre cornici vuote. Esteticamente erano delle soluzioni interessanti, soprattutto in una casa di un pittore che non amava avere appese troppe delle sue opere.

Io invece, con il tempo, ho cercato di riempire quelle cornici vuote con i quadri di Gian, grazie anche al suggerimento di un amico che mi aveva fatto notare come quei vuoti non fossero più delle attese, ma assenze che dovevano essere riempite per vivere compiutamente il mio presente.

E poi, appunto, ci sono i tanti quadri, appesi o appoggiati, e le cartelle che contengono ancora i suoi lavori. Come sei riuscita a riordinare e catalogare la grande quantità di materiali che hai ereditato?

Dopo la morte di Gian mi sono ritrovata con una grande quantità di opere da gestire, opere su vari tipi di supporto: carte, cartoni, tele. La domanda di tutti era: «E adesso cosa farai? bisognerebbe che tu cominciassi a riordinare…», ma io da sola mi sentivo come paralizzata.

Alcuni mesi dopo un grande amico di sempre, Gianni Filorizzo, è venuto da me e mi ha detto: «Senti Mariantonietta, cominciamo domani!». E così abbiamo iniziato la difficile catalogazione delle opere. Tutti i giorni, per numerosi mesi, a fotografare, digitalizzare e riporre in cartelle e ripiani appositamente costruiti per ospitare le opere più grandi.

Un lavoro faticosissimo e impegnativo che ho potuto affrontare solo grazie alla fermezza indicibile di Gianni. Un lavoro fatto in famiglia e non per un fine specifico, consapevoli che era necessario e che da lì si doveva partire.

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Da questo percorso è nata l’idea dell’archivio e poi la realizzazione della monografia?

Certamente sì! Ma soprattutto dall’incontro con Lara Conte, storica dell’arte, per la quale non so esprimere l’immensa gratitudine per il lavoro fatto. È lei che ha dato vita, con costanza e tenacia, alla monografia “Gian Carozzi”, edita da Skira.

Sempre Lara, nei diversi mesi di quasi giornaliera frequentazione, mi ha suggerito che la monografia potesse essere il frutto del lavoro di un archivio. Così nel 2018 sono nati l’Archivio e la monografia.

Cosa vorresti che diventasse l’Archivio Gian Carozzi?

Distinguerei due aspetti dell’Archivio: da una parte la sua funzione di divulgazione dell’opera di Gian e dall’altra, complementare e non contrapposta, la casa archivio quale luogo di conservazione che racconta l’intimo di una vita trascorsa a dipingere e, nello stesso tempo, si apre a nuove interpretazioni e definizioni.

La casa diventa dunque, non solo sede dell’Archivio, ma luogo d’incontro e di studio per tutti coloro che vorranno confrontarsi con il lavoro di Gian.
Una casa aperta a nuove sensibilità e a nuovi progetti, visitabile, vivibile, ma fedele all’etica di studio e lavoro che da sempre la caratterizza.

Mariantonietta, dopo la nostra lunga e bella conversazione, traspare dietro al tuo impegno questo senso di responsabilità di conservare e far conoscere l’eredità lasciata da tuo marito Gian Carozzi, come tu dici “la responsabilità di colui che resta”.

Ad essere sincera è da tempo che mi interrogo sul senso di responsabilità nei confronti del lascito di un artista. Da una parte ci sono problemi molto concreti come preservare al meglio i quadri, i disegni, in generale le opere, ai quali si aggiunge la necessità di avere spazi adeguati alla conservazione.

Poi c’è la questione morale, forse più problematica, di trovare la maniera migliore, la più onesta e rispettosa, di promuovere e non far cadere nell’oblio il lavoro di una vita.

Mi piacerebbe molto confrontarmi con altre persone che si sono trovate, o che si stanno trovando, nella mia stessa condizione. Qual è, qual è stato, il loro percorso?
La responsabilità di colui che resta è un tema che mi è particolarmente caro proprio adesso che inizio ad aprirmi al mondo e lo vorrei fare nel migliore dei modi possibili.

So con certezza di aver trovato fin qui dei compagni di viaggio che mi hanno sostenuta e aiutata e a cui va tutto il mio ringraziamento.

Mariantonietta grazie per le ore trascorse insieme, per la gentilezza e sincerità nel raccontarmi tante cose del tuo privato. Grazie a Giulia che, anche se lontana, ci ha sempre seguite in questo percorso. Un particolare ringraziamento a Lara Conte.
Di seguito i link per avere maggiori informazioni sull’arte di Gian Carozzi e sulle iniziative dell’Archivio: Archivio Gian Carozzi e galleria Cardelli & Fontana
Fotografie: Mario Commone e Marta Manini