
Claudia Bienaimé, nel segno del padre Ezio e di Leonardo Ricci
Carrara
Claudia Bienaimé è architetto e vive a Carrara. La storia di Claudia è intimamente legata a quella di suo padre Ezio (Venezia 1923 – Carrara 2002) architetto e urbanista, con un percorso di vita e di formazione anomalo, segnato da difficoltà, ostinazione e incontri eccezionali. Fondamentale quello con Leonardo Ricci architetto italiano tra i più importanti del secolo scorso.
Claudia ci racconti di tuo padre Ezio Bienaimé?
La prima parola che mi viene in mente pensando a mio padre è generosità. Un uomo generoso e appassionato che amava condividere la sua esperienza e le sue visioni progettuali con gli altri, capace di dialogare con tutti, dagli artigiani ai colleghi, dai collaboratori in studio ai giovani a cui ha insegnato all’università e più tardi al liceo artistico qui a Carrara. Sicuramente le dolorose esperienze giovanili hanno formato il suo carattere, a tratti spigoloso, ma allo stesso tempo istintivo e coraggioso.
La sua era una famiglia povera. Mio nonno era un artigiano del marmo, un semplice scalpellino. Mio padre rimane orfano a soli sedici anni e inizia subito a lavorare per mantenere la mamma e le tre sorelle. Lavora come disegnatore nello studio di un ingegnere che lo aiuta anche a proseguire gli studi all’Accademia. Un’esperienza formativa e umana importantissima per la sua successiva professione.
Poi ci fu il dramma della guerra, l’arruolamento, il ferimento in battaglia e la prigionia. Quando viene arruolato come sommozzatore la sua destinazione è Venezia, la città natale di mia nonna dove lui stesso è nato. E qui, nonostante la guerra, decide di iscriversi alla Facoltà di Architettura. Riesce a sostenere alcuni esami e ha la fortuna di avere come docenti Giuseppe Samonà e Carlo Scarpa. Un altro importante momento di crescita.
Naturalmente non termina gli studi che riprenderà solo più tardi a Firenze e dove incontrerà presto il suo maestro, Leonardo Ricci.



Le Alpi Apuane viste dal terrazzo di Claudia
L’incontro importante con Leonardo Ricci, da allievo a stretto collaboratore. Ci racconti di questo sodalizio, di questa amicizia?
L’incontro tra mio padre e Leonardo Ricci è avvenuto alla Facoltà di Architettura di Firenze nell’anno accademico 1947-1948.
Alle mie insistenti richieste di conoscere dettagli su quell’incontro, mio padre mi raccontò che durante una revisione presso la cattedra di composizione architettonica si presentò al professor Ricci con il progetto di una casa unifamiliare.
Ricci rimase colpito dai setti murari in pietra che proseguivano oltre i limiti dell’abitazione e gliene chiese il motivo. Mio padre rispose che “lo spazio non si può chiudere”. Credo che fu quello il momento in cui due sensibilità simili si sono riconosciute e hanno trovato una grande affinità nel modo di percepire l’architettura e il suo rapporto con il paesaggio.
Ricci venne presto a sapere delle ristrette disponibilità economiche di mio padre e delle conseguenti difficoltà a frequentare regolarmente le lezioni universitarie. Fu allora che, con grande generosità, il professore invitò l’allievo a vivere per un periodo nella sua casa-studio a Monterinaldi, sulle colline di Firenze.
Leonardo ed Ezio divennero amici. Per mio padre il periodo vissuto a casa Ricci, a contatto con una famiglia così speciale, ha profondamente influito sulla sua vita futura. Lì scoprì un modo di vivere fuori dagli schemi, anticonvenzionale. Casa Ricci era a quel tempo, per tutta la città di Firenze, un vero salotto culturale a cui tutti partecipavano. E mio padre si trovava ad assistere, in disparte, alle animate discussioni tra artisti, intellettuali e letterati. Lui, timido e introverso, ha sempre affermato che doveva tutto al suo “maestro”.

Ezio Bienaimé con la moglie Mirella nello studio Pregliasco a Carrara negli anni ’60

Ezio Bienaimé seduto al tavolo da lavoro nello studio di Carrara che condivideva con il collega e amico Aldo Pisani

Sulla destra Ezio Bienaimé, al centro Leonardo Ricci con il figlio Andrea, durante i lavori della sezione “Costume della terra dell’uomo” all’Expo di Montreal del 1967 (foto archivio Federal Photos Montréal)
E dopo il periodo trascorso a Monterinaldi?
È proprio a Monterinaldi che iniziano a lavorare insieme. La cosa singolare è che mio padre non ha mai lavorato a Firenze, è lui che ha portato Ricci a Carrara. Qui hanno realizzato insieme molti edifici: ville private, palazzi per abitazioni, i grattacieli di Massa e Carrara. Ezio ha poi seguito direttamente i lavori più importanti di Ricci, dal villaggio valdese (anche se nelle carte non risulta) alla direzione dei cantieri delle ville Mann-Borgese a Forte dei Marmi e Balmain all’Isola D’Elba, dal grattacielo a Genova al piano regolatore di Pachino, mai realizzato.
Io sono nata nel 1956 e in quegli anni la loro collaborazione era intensissima. Mio padre, che aveva poi aperto il suo studio a Carrara assieme all’amico Aldo Pisani, era molto impegnato, talmente impegnato da rimandare sempre la sua laurea, che conseguirà solo nel 1961.
Le loro strade hanno iniziato a separarsi alla fine degli anni ’60. Dopo l’esperienza dell’Expo di Montrèl del 1967 con la direzione lavori insieme a Ricci della sezione “Costume della terra dell’uomo” del Padiglione Italiano, mio padre viene invitato a fermarsi in America, ma lui rifiuta. Ricci si fermerà ancora negli Stati Uniti e poi nei primi anni ’70 lascerà addirittura Firenze.
Mio padre invece per quanto amasse il suo lavoro e l’architettura non avrebbe mai rinunciato a vivere a Carrara.
Tuo padre era un uomo libero, creativo, non incline a compromessi…
Mio padre amava la sua terra in maniera smisurata e attraverso il suo lavoro ha sempre cercato di dare delle risposte ai problemi del territorio. Per questo non avrebbe potuto lavorare in un luogo a lui estraneo.
Non poteva vivere lontano da Carrara e dal suo mare. Grande appassionato di pesca subacquea, non c’era giorno, estate o inverno, e finché il fisico glielo ha permesso, che non andasse al mare a farsi un bagno.
Sì, posso dire che mio padre si poneva di fronte alle cose che amava con grande slancio e serietà. Così era per l’architettura, la pesca subacquea e la filatelia, altra sua grande passione.
Il palazzo residenziale a quattro piani che ospita la tua casa è stato progettato e costruito da tuo padre nei primi anni ’60. Ce ne parli?
Mio padre amava molto la collina di Montia a ridosso del centro storico di Carrara. Pensa che qui c’era il progetto di creare un nucleo abitativo sul modello di Monterinaldi. I terreni erano della famiglia dell’architetto Giovanni Fabbricotti, amico di mio padre, che offre la disponibilità al loro utilizzo. Insieme, a metà anni ’50, propongono l’idea a Ricci. Non riusciranno a completare il progetto perché una grande parte dei terreni è poi espropriata dal Comune, ma è proprio qui che vengono realizzate le prime ville di Ricci in territorio carrarese, villa Baruzzo Franzoni e villa Leva.
Successivamente mio padre compra il diritto a costruire in un lotto vicino a villa Baruzzo e progetta il condominio “Du Jardin” con l’intenzione di riservare il piano attico alla residenza per lui e la sua famiglia. Questa casa l’ha costruita in economia e con pazienza. Ha usato materiali poveri e della zona. Il cotto a terra, i mattoni per i parapetti, il marmo di Carrara. E poi il cemento armato che era uno dei suoi materiali preferiti, con le tavole in legno che lasciavano la loro impronta indelebile.
Anche allora le disponibilità economiche non erano molte e i primi anni abbiamo vissuto con le sedie da giardino al posto dei divani, il tavolo del falegname fatto con i cavalletti e i materassi a terra, quando lo stile giapponese non era certo contemplato dalle nostre parti! Ma a mio padre non interessava, per lui la casa doveva essere bella anche da vuota.



Ci racconti gli interni della tua casa?
Nella casa si ritrovano tante delle soluzioni compositive studiate e sviluppate da mio padre Ezio negli anni. La pianta della casa nasce pensando ai percorsi e all’esposizione solare.
Lui segnava i percorsi a terra con l’uso di materiali diversi, qui il cotto e il marmo, mettono in evidenza la struttura architettonica. Le strisce di marmo a terra riprendono la dimensione e il disegno delle grandi travi in cemento in alto nel soffitto.
L’ambiente comunque raccolto del lungo corridoio d’ingresso, che inquadra l’elemento architettonico della scala a chiocciola, conduce al grande spazio aperto del soggiorno.


Il fulcro del soggiorno è il grande camino, con la cappa sospesa in rame, la base in mattoni di recupero e la panca a sbalzo in legno massello; un altro elemento spesso presente negli interni di Ezio.
Ogni elemento architettonico è valorizzato, sottolineato, ha una sua precisa funzione. Ad esempio la trave, su cui poggiano i serramenti delle vetrate, è sagomata a panca sia all’interno che all’esterno. Lo stesso per la trave-mensola superiore che con il grande aggetto esterno diventa una pensilina che taglia il sole d’estate o protegge dalla pioggia, mentre il sopraluce fa entrare il sole d’inverno. L’architettura provvede a tutto senza bisogno di altro.

Tuo padre è mancato nel 2002. Tu hai sempre lavorato con lui e dopo portato avanti lo studio da sola. Com’è cambiato il lavoro negli anni?
Mio padre ha sempre lavorato molto con il suo studio. A Carrara era conosciuto e oltre a lavorare con ditte di costruzioni ha realizzato tantissime ville grazie a clienti illuminati che lo chiamavano perché apprezzavano il suo lavoro e la sua architettura non tradizionale. Gli anni ’70 sono stati anni eccezionali in cui ha avuto la fortuna di potersi esprimere senza le limitazioni che ci sono adesso.
Io, anche per paura di confrontarmi con lui, già dall’università ho scelto di fare restauro architettonico. In linea con i tempi che stavano cambiando.
Dagli anni ’80 il lavoro ha cominciato a modificarsi, si costruiva meno e aumentavano invece le ristrutturazioni di case e i restauri di edifici storici. Non è stato sempre facile lavorare con mio padre, ma da lui ho imparato tantissimo: l’approccio al progetto, la pratica in cantiere, il rispetto dei materiali. Ma non ho le sue intuizioni e la sua genialità.
Sono contenta di aver fatto architettura e ho sempre trovato dei colleghi con cui lavorare bene. Adesso condivido lo studio con altre donne architetto e continuo a fare soprattutto ristrutturazioni per clienti privati. Rendere felici le persone ha a che fare con quell’attitudine al sociale che fa parte di me.



Cos’è per te l’abitare, cosa rappresenta oggi la tua casa?
Ringrazio ogni giorno mio padre per questa casa.
Qui il tempo scorre al ritmo del sole e della luna… sei parte di un ciclo, perché la differenza tra spazio esterno e interno è annullata. Come diceva un mio amico, questo non è un attico, ma una villa sui tetti! Un’architettura non sempre facile, soprattutto per la collocazione degli arredi o per la mancanza di pareti a cui poggiarsi, ma che è uno stimolo continuo a vedere le cose in maniera sempre diversa.
Durante il lockdown ho capito ancora di più il suo valore. Il soggiorno vetrato in continuità con la grande terrazza ha fatto la differenza. Avere uno spazio vivibile all’esterno dovrebbe essere obbligatorio.



Abitare in questa casa è vivere bene… di notte, quando le luci sono spente, amo vedere sorgere la luna da dietro le montagne e piano piano illuminare lo spazio: ogni volta è un’emozione.
Ringrazio Claudia per la generosità che mette in ogni cosa, per avermi accolta nella sua casa e aperto con fiducia le porte del suo privato. E grazie per aver aderito con entusiasmo e senza timore al mio progetto ancora in una fase iniziale.
Foto: Roberto Buratta, Maurizio Bruschi e Marta Manini